Lea Zicchino, Lorenzo Prosperi
Le recenti misure di politica monetaria della Bce potranno senza dubbio limitare i rischi di caduta della crescita economica nell’area euro e ridurre il rischio di disinflazione in una fase di forte incertezza sulle prospettive del commercio internazionale e della domanda globale. Sono tuttavia emersi segnali di dissenso, interno ed esterno a Francoforte, sulle decisioni prese a settembre, almeno su alcuni aspetti. I rappresentanti dei Paesi core dentro al Consiglio Direttivo non erano favorevoli al riavvio del Quantitative Easing, mentre altri membri, inclusi i rappresentanti del settore finanziario tedesco, hanno espresso disapprovazione per l’ulteriore discesa in territorio negativo del tasso sui depositi. Investitori e analisti di mercato sembrano invece sempre più convinti che, in una situazione in cui le condizioni finanziarie sono già favorevoli, nuovi interventi di espansione monetaria possano avere efficacia limitata sulla domanda aggregata e quindi sull’inflazione.
L’introduzione del sistema di tiering sulle riserve, grazie al quale una parte dei depositi delle banche presso la Bce non avrà più una remunerazione negativa, non sembra essere bastata a ridurre la preoccupazione degli investitori circa gli effetti dei tassi negativi sulla redditività del settore. Preoccupazione evidente nelle quotazioni azionarie: il rapporto tra il valore di mercato e quello di libro è sempre sotto l’unità, al contrario di quanto accade nelle banche nordamericane, a segnalare incertezza sulla capacità degli istituti dell’Eurozona di estrarre valore dai propri asset (fig. 1).
La responsabilità di questa situazione è attribuita, almeno in parte e da parte di alcune delle grandi banche europee, alla Bce, che ha portato i tassi su livelli molto bassi, fino poi a spingerli sotto zero. I grafici in fig.2 mostrano l’evidente correlazione tra l’andamento degli indici azionari bancari e i tassi a breve termine. Questi ultimi si muovono insieme alle condizioni dell’economia: dalla crisi in poi, di certo quella europea ha avuto più difficoltà rispetto a quella statunitense, che, oltre al sostegno della politica monetaria, ha potuto godere anche di vari round di politica fiscale espansiva.
Dopo la crisi dei debiti sovrani, le quotazioni azionarie delle banche europee sembrano poi aver aumentato la propria sensitivity, cioè la propria reattività, a variazioni non attese sui tassi (fig. 3). Una reattività peraltro maggiore per la scadenza a 2 anni rispetto a quella a un mese. Questo segnala che negli ultimi anni gli istituti bancari sono stati più penalizzati da sorprese negative persistenti, anziché temporanee, sui tassi di interesse.
Infine, la relazione tra titoli azionari e tassi è diventata più forte per le banche che si finanziano con una quota maggiore di depositi (fig. 4): un’ulteriore conferma che esiste un limite alla compressione del costo della raccolta via riduzione dei tassi di politica monetaria. In altre parole, se non si possono trasferire tassi negativi sui depositi della clientela, gli investitori penalizzano maggiormente le banche con più depositi perché si attendono una riduzione del costo della raccolta limitata alla sola componente di obbligazioni, che sarebbe probabilmente meno onerosa con tassi di politica monetaria più bassi.
In conclusione, se è indubbio che gli interventi della Bce hanno sostenuto la domanda aggregata e, per questa via, anche i ricavi del settore bancario, dalla crisi dei debiti sovrani in poi la relazione (positiva) tra tassi e quotazioni azionarie per le banche è diventata più forte, in particolare per quelle meno attive sui mercati della raccolta all’ingrosso.